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ITINERARI - IDEE - L'EVOLUZIONE

LA SELVA DELLE SOMIGLIANZE

Classificare vuol dire ordinare cose diverse in gruppi o «classi» a seconda delle loro somiglianze o delle loro differenze. Somiglianze e differenze costituiscono però un sistema di relazioni in cui non è facile districarsi: ogni cosa può essere posta in relazione con un'infinità di altre cose, e oggetti che appaiono molto simili sotto certi rispetti non lo sono affatto sotto altri. Classificare significa dunque aprirsi una strada in questa selva di relazioni, scegliere un criterio in base al quale privilegiare certi caratteri rispetto ad altri, e decidere quali somiglianze valorizzare e quali sacrificare.
Se si immagina che la natura risponda a un disegno razionale, per esempio a un certo schema geometrico (come credevano Pitagorici e Platonici) oppure al progetto di un Dio creatore (come credevano Ebrei e Cristiani) la classificazione può, e in certi casi deve presentarsi come interpretazione di tale disegno. Si parla allora di classificazione «naturale», conforme cioè a un supposto «ordine naturale» delle cose; si dice invece «artificiale» una classificazione che procede secondo partizioni di comodo, senza preoccuparsi che le classi così costruite corrispondano a qualcosa di realmente esistente in natura.
Il primo grande tentativo di classificazione naturale delle forme di vita è stato compiuto da Aristotele. Non si può dire che l'impresa gli fosse riuscita benissimo. Il suo sistema faceva appello a criteri molto eterogenei: tra gli animali, ad esempio, la prima grande divisione si fondava sul sangue (animali con o senza sangue rosso), ma quelle successive si basavano sui modi della locomozione e della riproduzione (quadrupedi vivipari e quadrupedi ovipari), sulla natura dello scheletro (osseo o cartilagineo) o delle protezioni esterne (scaglie o conchiglie), sulla forma delle estremità (palmate, artigliate, ecc.), sulle abitudini alimentari (granivori, insettivori, ecc.), e così via, senza che si potesse intravvedere un elemento unificante. Nonostante i suoi limiti, la classificazione aristotelica rappresentò una notevole impresa scientifica e restò un modello per secoli.
Nel Rinascimento il problema di una razionale classificazione delle forme viventi diventò per certi aspetti drammatico data la necessità di trovare una collocazione alle innumerevoli nuove specie di cui gli Europei erano venuti a conoscenza con l'esplorazione dell'Africa, dell'Asia e delle Americhe: Linneo nel Settecento solo tra i vegetali arrivò a classificare ben 18.000 specie contro le 5-600 note nell'antichità classica. La difficoltà era sempre la stessa: individuare negli organismi un carattere (o un insieme di caratteri), che fornisse un criterio univoco per stabilire i confini delle singole specie e al tempo stesso per valutare il grado di affinità tra specie diverse.
Andrea Cesalpino (1519-1603) per non smarrirsi nell'indefinita ricchezza delle forme naturali suggeriva di restringere la scelta dei caratteri specifici ai soli organi coinvolti nelle funzioni vitali più importanti, come la nutrizione, la riproduzione, ecc. Sul finire del Seicento Rudolph Jacob Camerarius (1665-1721), raccogliendo i risultati di ricerche sue e di altri, in una celebre Epistula de sexu plantarum riuscì a dimostrare che i fiori sono portatori di organi sessuali e che la cooperazione dei sessi è necessaria alla produzione di semenza fertile. La sessualità veniva così riconosciuta come funzione comune a piante e animali, e diventava una possibile base di nuove classificazioni. Alla fine risultò che i caratteri sessuali si prestavano assai bene a questo scopo e anche il più grande classificatore di tutti i tempi, Carlo Linneo, vi fece ampiamente ricorso.
Linneo (nome italianizzato dello svedese Carl von Linné, 1707-1778), figlio primogenito di un pastore luterano, era un entusiasta ammiratore dello straordinario disegno del creato, che, diceva, occorre scoprire con cura paziente, rintracciando gli esseri viventi, descrivendoli, classificandoli, battezzandoli, come appunto egli fece in tutta la sua vita con quasi maniacale dedizione. Nel 1735 pubblicò il primo abbozzo, che contava appena poche pagine, del suo fondamentale Systema Naturae (Sistema della Natura), che alla decima edizione, nel 1758-59, avrebbe raggiunto i due tomi e alla dodicesima, nel 1766-88, i quattro. Il Sistema della Natura proponeva un sistema di classificazione degli organismi viventi fondato principalmente sui meccanismi della riproduzione e adottava quella nomenclatura binaria (costituita dai nomi latini del genere e della specie) che, escogitata da altri prima di lui, si è imposta soprattutto per merito suo. È di Linneo l'espressione, diventata poi proverbiale, Natura non facit saltus (cioè «la Natura non fa salti», procede per differenze infinitesime) che compendia l'antica concezione del mondo organico come una sorta di flusso continuo, dove ogni forma di vita differisce dalle altre per variazioni graduali, spesso impercettibili.
Questa immagine di una «grande catena dell'Essere» che legherebbe in una serie continua tutti gli organismi, dal più semplice al più complesso, è presente nel pensiero occidentale fin da tempi remoti e può trovare una convincente spiegazione nell'ipotesi (che nell'Ottocento fu detta «evoluzionista» o «trasformista») della comune discendenza dei viventi da una forma originaria o da un limitato numero di forme originarie («archetipi», come sarebbero stati chiamati nell'Ottocento). Presente in qualche modo negli Ionici, in Empedocle e in Platone, l'ipotesi trasformista non ha incontrato larghi consensi neppure nell'antichità classica. Il sistema aristotelico di classificazione dei viventi, per esempio, aveva una caratteristica struttura ad albero che richiamava l'idea di una generale parentela degli esseri: gli individui che presentavano gli stessi caratteri «essenziali» erano raggruppati in specie (rami secondari), le specie in generi (rami principali) e i generi in classi via via più ampie (i ceppi comuni). Ma l'immagine che ne risultava era quella di una gerarchia statica di forme viventi, non di un processo di formazione delle specie per modificazioni successive. Sebbene l'idea di sviluppo avesse un ruolo centrale nella sua filosofia, Aristotele riteneva che solo gli individui fossero suscettibili di modificazioni: le specie corrispondevano invece alle essenze degli individui, ossia a forme immutabili, eterne. L'affermazione del Cristianesimo ha poi condannato definitivamente le ipotesi evoluzionistiche, che contrastavano apertamente con l'idea della creazione e con il racconto biblico.
In età moderna il ritrovamento di un numero enorme di nuove forme animali e vegetali nelle terre di recente scoperta confermò l'esistenza di un'infinita varietà di organismi, riconducibile ad alcune strutture fondamentali. Tornarono così i dubbi circa l'effettiva possibilità di separare rigorosamente una forma dall'altra e riemerse l'ipotesi di una certa plasticità delle specie, immerse in una sorta di flusso vitale continuo e graduale. Quelle stesse scoperte, dimostrando quanto piccolo fosse il mondo fino a quel momento conosciuto dagli Europei, lasciavano sperare che, se pure nella grande catena degli esseri c'erano ancora dei vuoti, fosse possibile prima o poi reperire gli «anelli mancanti», ossia le forme intermedie tra i grandi gruppi animali e vegetali.
La convinzione dell'infinita gradualità delle forme viventi si dimostrò tuttavia, ancora una volta, insufficiente a indurre gli scienziati ad assumere un'ipotesi evolutiva. Linneo considerava le specie entità naturali rigorosamente definite e, nei loro caratteri essenziali, immutabili. Il suo assunto fondamentale era che esistono attualmente tante specie di animali e vegetali quante erano state originariamente le forme generate dal Creatore. Linneo era fissista anche per ragioni ideologiche, ossia per fedeltà al racconto biblico. Ma la difficoltà più seria stava nella nozione di specie quale era generalmente accolta. L'inglese John Ray (1627-1705), l'aveva definita come gruppo di individui simili i cui caratteri distintivi si perpetuano di padre in figlio, il che voleva dire che nessuna specie può sorgere dal seme di un'altra. La «barriera della sterilità» delimitava i confini delle specie: da individui di specie diverse non nasce alcuna prole o nasce prole sterile. Il mulo, ad esempio, ibrido di un asino e di una cavalla, non è in grado di avere a sua volta dei figli; asini e cavalli sono dunque specie affini ma diverse.

TASSONOMIA

La «tassonomia» (dal greco tàssein = «ordinare», «classificare» e nòmos = «norma», «regola») è la disciplina che si occupa della classificazione e della nomenclatura degli esseri viventi e dei fossili.

AFFINE/ANALOGO/OMOLOGO

«Somiglianza» è un termine generico. Tra Sette e Ottocento nel tentativo di individuare il tipo di relazione sul quale basare una classificazione naturale dei viventi, si è molto insistito sulla necessità di distinguere tra somiglianze «essenziali», o affinità, e le somiglianze o analogie accidentali dovute a semplice adattamento. Sono forme «affini» quelle che costituiscono modificazioni di uno stesso tipo di struttura: l'affinità è dunque sinonimo di parentela biologica. Si dice omologo (dal greco homòlogos = «simile», «corrispondente», composto di homòs = «simile» e légein = «dire») un organo che, qualunque funzione svolga, si ritrova più o meno modificato in specie diverse ma affini. Sono organi omologhi, ad esempio, il braccio di un uomo, la zampa anteriore di un quadrupede, l'ala di un uccello (hanno infatti la stessa struttura, anche se svolgono funzioni diverse). Si dice analogo (dal greco anàlogos = «proporzionale») l'organo che ha la stessa funzione che in un'altra specie è svolta da un organo diverso. Sono organi analoghi, ad esempio, le ali degli uccelli e quelle degli insetti (hanno infatti la stessa funzione, ma strutture completamente diverse).

EVOLUZIONISMO E FISSISMO

Una prima ipotesi evolutiva è stata adombrata nel Settecento dal naturalista francese Georges Louis Leclerc, conte di Buffon (1707-1788) direttore dei giardini reali a Parigi. Buffon non era evoluzionista nel senso attuale del termine, ma riteneva che solo gli individui fossero realmente esistenti, mentre le specie non sarebbero state che astrazioni, pure costruzioni mentali: parlare di fissità della specie non aveva dunque molto senso. Certo, anche Buffon non poteva non prendere atto della barriera della sterilità, ed accettava la definizione di specie come gruppo di individui interfecondi, ma, scriveva:

...una volta dimostrato che fra gli animali e i vegetali ci siano state non dico parecchie specie, ma anche una sola prodotta per discendenza diretta da un'altra specie [...] non dovremmo andare errati se supponessimo che durante un periodo di tempo abbastanza lungo la Natura possa aver sviluppato tutte le forme organiche a partire da un unico tipo originario...

Un periodo sufficientemente lungo di tempo sembrava esserci stato davvero giacché Buffon, sulla base di numerosi indizi soprattutto di carattere geologico, attribuiva alla Terra un'età di almeno centomila anni, una cifra che, sulla base delle attuali conoscenze appare ridicolmente piccola, ma che allora sembrava enorme, confrontata con i cinque o seimila anni in tutto che risultavano dalla testimonianza, ancora generalmente accettata, della Bibbia.
L'ipotesi di una evoluzione organica era inserita da Buffon nel quadro di una più ampia visione dell'evoluzione cosmica. La Terra, secondo Buffon, sarebbe nata da una massa fluida e incandescente staccatasi dal Sole, che si sarebbe poi lentamente raffreddata (un'ipotesi del genere fu formulata anche da Immanuel Kant e, più autorevolmente, da Pierre-Simon Laplace). Nel corso del raffreddamento si sarebbero prodotte condizioni favorevoli alla comparsa della vita, che, dotata all'inizio di grande plasticità, si sarebbe espressa in una straordinaria varietà di forme. Solo con l'ulteriore raffreddamento del globo questa plasticità sarebbe diminuita e le specie sarebbero diventate tipi fissi, geneticamente non comunicabili.
Le idee di Buffon, duramente attaccate dalle autorità ecclesiastiche, vennero riprese e sviluppate in una vera e propria teoria evoluzionistica da un suo allievo, Jean Baptiste Lamarck (1744-1829). Lamarck era convinto che fosse possibile dimostrare con osservazioni ed esperimenti la realtà dell'evoluzione; a ragione, però, gli fu più tardi rimproverato di aver costruito la sua teoria su un assunto di carattere apertamente metafisico. Lamarck supponeva l'esistenza di una capacità di perfezionamento insita nella vita e tale da promuovere l'evoluzione organica lungo una scala di crescente complessità culminante nell'uomo. Su questo supposto teleologico Lamarck inseriva poi il principio, anch'esso scarsamente suffragato da prove, dell'adattamento degli organismi all'ambiente in cui vivono. In particolare, secondo Lamarck, l'esercizio ripetuto di alcune attività svilupperebbe i relativi organi, e i caratteri così acquisiti potrebbero essere trasmessi, per ereditarietà, alle generazioni future.
Non fu difficile a Georges Cuvier (1769-1832), l'autorevole fondatore della moderna anatomia comparata e della paleontologia, attaccare le teorie di Lamarck come inverificabili «sottigliezze metafisiche». Il caso di Cuvier è tuttavia curioso: anche se le spiegazioni che ne dava Lamarck erano inaccettabili, il fatto dell'evoluzione organica trovava le conferme più convincenti proprio nella paleontologia e nell'anatomia comparata di cui era maestro.
Ma non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere: pur avendo continuamente sotto gli occhi le tracce dell'evoluzione organica, Cuvier era rigorosamente fissista. Anche l'idea tradizionale di una grande «catena dell'Essere», che aveva esercitato una forte suggestione su Lamarck, gli appariva un'«immaginazione ridicola»: secondo lui non c'era alcuna scala lineare degli esseri, i grandi gruppi animali e vegetali erano reciprocamente irriducibili e la ricerca degli «anelli mancanti» un'impresa illusoria. Considerava le specie come modificazioni dei tipi fondamentali a cui riconduceva (ma solo da un punto di vista descrittivo e classificatorio sicché si trattava di «archetipi» puramente ideali) i grandi gruppi di esseri viventi, e immaginava che esistesse un qualche fattore a cui imputare tali modificazioni. Poiché, però, come Newton, non voleva «fingere ipotesi», non sapeva e non voleva immaginare quale potesse essere questo fattore. Salvo poi tentare di conciliare il suo fissismo con le innumerevoli testimonianze di antiche forme di vita ormai estinte, «fingendo» un'ipotesi molto più azzardata di quella dell'evoluzione, nota come «teoria delle catastrofi»: la Terra, secondo questa teoria, avrebbe subito una serie di diluvi universali (l'ultimo sarebbe stato quello di Noè) ciascuno dei quali avrebbe determinato la scomparsa di gran parte delle popolazioni animali e vegetali.
L'autorità di Cuvier (che, tra l'altro, si appoggiava ad una singolare influenza sul potere politico, conservata a dispetto di tutti i cambiamenti di regime avvenuti nel primo Ottocento in Francia) riuscì a mettere in ombra per lungo tempo, almeno nell'ambiente accademico francese, le idee di Lamarck e più in generale le ipotesi evoluzionistiche. Ma la sua teoria delle catastrofi non resse a lungo alle critiche degli scienziati e soprattutto a quelle del geologo inglese Charles Lyell (1797-1875). Lyell seguiva una teoria detta attualismo, secondo la quale le varie trasformazioni verificatesi sulla crosta terrestre nel passato dovevano essere interpretate sulla base degli stessi processi attualmente in corso, e non invocando eventi eccezionali sul genere delle catastrofi di Cuvier. Naturalmente, poiché le modificazioni indotte dai fattori attualmente operanti risultano spesso impercettibili, per spiegare la configurazione attuale della crosta terrestre era necessario ipotizzare tempi lunghissimi, calcolabili non in migliaia, ma in milioni di anni (oggi sappiamo che in realtà si tratta di miliardi).
I principi dell'attualismo e i lavori di Lyell nel campo dell'evoluzione geologica hanno costituito la premessa necessaria della teoria darwiniana dell'evoluzione biologica. Ma per Darwin quasi altrettanto importante come fonte di ispirazione è stata l'opera di un economista, l'inglese Thomas Robert Malthus (1766-1834) che nel 1798 aveva pubblicato il Saggio sul principio di popolazione. Si trattava di uno scritto polemico nel quale, non senza un certo gusto per il paradosso, Malthus si proponeva di dimostrare l'impossibilità di un progresso stabile dell'umanità, perché, diceva, mentre le risorse alimentari sono limitate, le capacità riproduttive degli uomini sono indefinite e i ritmi di crescita della popolazione molto più alti di quelli della produzione dei mezzi di sussistenza.
Ne conseguiva che lo squilibrio tra bisogni e risorse, da cui nascono fame, miseria, malattie, guerre, diseguaglianze, doveva essere considerato non la conseguenza di una cattiva organizzazione sociale, ma un elemento permanente della storia, destinato anzi ad aggravarsi costantemente. Si trattava, secondo Malthus, di una legge di natura valida per qualsiasi forma di vita.

... La natura ha sparso i semi della vita con la massima profusione e generosità in tutto il mondo animale e vegetale. È stata invece relativamente parsimoniosa nel provvedere spazio e nutrimento necessari ad alimentarli e a farli crescere. La razza delle piante e quella degli animali si contraggono per effetto di questa grande legge limitativa. La razza dell'uomo non può con nessuno sforzo della ragione sfuggire a questa legge. Tra le piante e tra gli animali i suoi effetti sono lo spreco di seme, le malattie, la morte prematura. Fra gli uomini sono la miseria e il vizio...

Per quanto riguarda l'umanità, lo squilibrio tra popolazione e risorse non è affatto ineliminabile, e lo stesso Malthus indicava dei rimedi (suggeriva per esempio di porre sotto controllo l'incremento demografico in modo da non vanificare costantemente l'aumento delle risorse ottenibile con il miglioramento dei metodi di produzione). Ma l'immagine di una continua competizione dei viventi, individui e specie, per impadronirsi delle risorse che sono necessarie alla sopravvivenza e che si presentano sempre in quantità limitate, ha fornito a Darwin il modello della sua teoria della selezione naturale, che ha dato finalmente all'ipotesi trasformista, suggerita da innumerevoli indizi, una base rigorosamente scientifica.
Formulata già negli anni Quaranta, e nota nelle linee essenziali ad un gruppetto di scienziati (tra cui Lyell) questa teoria è diventata oggetto di infinite discussioni con la pubblicazione nel 1859 de L'origine delle specie per opera della selezione naturale. In questo libro, in aperta polemica con il teleologismo di Lamarck, Darwin metteva subito in evidenza quello che è il carattere più importante del fenomeno evolutivo, ossia la sua assoluta casualità. Tutti gli organismi tendono a variare dai loro genitori, ma questa variabilità non ha un indirizzo preciso, connesso, come pretendeva Lamarck, ad una misteriosa tendenza al perfezionamento: si sviluppa a caso, in tutte le direzioni. Tuttavia solo le variazioni utili (quelle cioè che consentono un miglior adattamento all'ambiente) vengono conservate, perché gli organismi che sono portatori di variazioni non utili sono sfavoriti nella competizione per la sopravvivenza e sono quindi destinati prima o poi a scomparire. Se, ad esempio, per effetto di un cambiamento più o meno brusco del clima la temperatura media si abbassa, all'interno di una certa popolazione animale gli individui a pelo lungo e folto si troveranno probabilmente avvantaggiati rispetto agli individui a pelo rado e corto (vivranno di più e avranno maggiori probabilità di riprodursi); se le nuove condizioni climatiche permangono per un tempo sufficientemente lungo è possibile che, nel giro di alcune generazioni, tutta la popolazione finisca col presentare il pelo lungo; può anche succedere infatti che gli individui a pelo corto e rado non riescano a sopravvivere fino all'età della riproduzione e che pertanto non siano in grado di trasmettere ai propri figli il carattere di cui sono portatori. L'adattamento all'ambiente, non è dunque la causa dell'evoluzione, come voleva Lamarck (per il quale del resto «causa» valeva come «causa finale»), ma semmai ne è la conseguenza, nel senso che l'evoluzione fa sorgere casualmente una serie di caratteri nuovi tra i quali, nel corso delle generazioni e per effetto della competizione, emergono quelli più favorevoli alla sopravvivenza.
La teoria darwiniana dell'evoluzione incontrò subito molte resistenze. Ostili furono soprattutto le Chiese cristiane, che vedevano nuovamente sconvolto l'assetto teorico che bene o male erano riuscite a darsi dopo lo scossone della cosiddetta «rivoluzione copernicana» e dopo il trionfo del meccanicismo newtoniano. Ostile però era anche un certo senso comune che ha sempre preferito vedere nell'uomo il frutto degenere di una creatura superiore (un angelo, per esempio) macchiata dal peccato, piuttosto che il risultato di una lenta ascesa da un essere inferiore. Anche Buffon, quando aveva avanzato le sue ipotesi trasformiste aveva essenzialmente pensato a processi degenerativi nei quali le scimmie sarebbero apparse come forme degradate dell'uomo, e non viceversa. Darwin, invece, faceva «discendere l'uomo dalle scimmie», per dirla con la frase con cui il grande pubblico credette (erroneamente) di poter sintetizzare le sue tesi.
A parte queste opposizioni di carattere scopertamente ideologico, le teorie darwiniane suscitarono parecchie riserve anche negli ambienti scientifici più informati. La teoria selezionista, ad esempio, non sembrava sufficiente a spiegare tutta la storia dell'evoluzione. Lo stesso Darwin dette qualche segno di cedimento in direzione del teleologismo, ammettendo che qualche fattore di tipo lamarkiano potesse intervenire nel processo evolutivo. Darwin aveva lamentato che le leggi della trasmissione dei caratteri da una generazione all'altra fossero ancora in gran parte sconosciute e aveva indicato nei meccanismi dell'ereditarietà uno dei principali settori verso i quali indirizzare le future ricerche. In realtà questi fenomeni avevano cominciato ad essere studiati da un monaco austriaco, Gregor Mendel (1822-1884), che negli anni Sessanta pubblicò i risultati delle sue ricerche. Nessuno però si accorse della cosa o la prese in seria considerazione e quando, sul finire del secolo, qualcuno finalmente tornò a leggere i vecchi articoli di Mendel, le leggi da lui formulate parvero confermare la stabilità delle specie piuttosto che la loro variabilità.
La crisi del darwinismo ai primi del Novecento ha coinciso con la rinascita di correnti idealistiche, irrazionalistiche e con la riproposizione di concezioni vitalistiche e teleologistiche dell'evoluzione, come quella dell'«evoluzione creatrice» (il libro con questo titolo fu pubblicato nel 1907 ed ebbe uno straordinario successo di pubblico) del filosofo francese Henri Bergson. Sotto le dure critiche dell'idealismo si fece più pressante negli scienziati l'esigenza di conoscere in modo completo e approfondito le cause della variabilità ed i meccanismi di trasmissione dei caratteri. Nacque così verso il 1910 un nuovo ramo della biologia, la genetica o scienza dell'ereditarietà.
La genetica ha dato finalmente una risposta esauriente a questi problemi portando un contributo sostanziale alla teoria evoluzionista. Il campo di applicazione della genetica riguarda soprattutto la variabilità e l'evoluzione nell'ambito della specie, quella cioè che va sotto il nome di specificazione o microevoluzione. Si tratta di un fenomeno che può realizzarsi in un tempo relativamente breve ed è riproducibile in laboratorio; si presta quindi abbastanza facilmente all'analisi sperimentale.
Non si può dire la stessa cosa della macroevoluzione, che riguarda passaggi più ampi, come da una classe all'altra (per esempio dai rettili agli uccelli), che richiedono tempi lunghissimi per realizzarsi e sfuggono inevitabilmente all'osservazione diretta.

DARWIN E IL BUON DIO

La straordinaria risonanza delle teorie darwiniane è in gran parte dovuta all'effetto devastante che hanno avuto su quello che è sempre stato il più convincente argomento a favore dell'esistenza di Dio: la bellezza del Creato, l'inesauribile varietà di forme e di meccanismi che si trovano in natura e che, manifestando l'esistenza di un disegno straordinariamente complicato, rinviano a un artefice infinitamente potente e intelligente. Questo argomento era stato ripreso ed illustrato agli inizi dell'Ottocento in un libro di grande successo, Natural Theology (Teologia naturale; il sottotitolo specificava: Prove dell'esistenza e degli attributi della divinità tratte dalle manifestazioni della Natura) di un noto teologo inglese, William Paley (1753-1805). Noi, diceva Paley, se vediamo un orologio in mezzo a un prato non possiamo non domandarci come ci sia arrivato, perché di sicuro qualcuno l'ha costruito e qualcuno l'ha portato fin lì; l'orologio è un meccanismo complicato, ma i fili d'erba tra i quali è finito sono infinitamente più complicati; eppure gli atei non si domandano mai chi li abbia costruiti, non si stupiscono della loro esistenza, immaginano che stiano lì per caso. Le teorie di Darwin dimostravano appunto che per spiegare la straordinaria complessità di cui è capace la vita non era affatto necessario ipotizzare un disegno consapevole. Come Darwin scriveva nell'Autobiografia (pubblicata postuma nel 1887):

... il vecchio argomento della finalità della natura, come lo espone il Paley e che un tempo mi pareva tanto decisivo, viene a cadere ora che è stata scoperta la legge della selezione naturale. Evidentemente non ci è più possibile sostenere, per esempio, che la bella cerniera della conchiglia d'un mollusco bivalve debba essere stata fatta da un essere intelligente, allo stesso modo che la cerniera di una porta dev'esser costruita dall'uomo. Ed a me non pare che ci sia più finalità nella variabilità degli organismi viventi e nell'azione della selezione naturale, di quanta ve ne sia nel soffiare del vento...

Ma Darwin, almeno all'inizio, non aveva immaginato che le sue scoperte potessero mettere in imbarazzo i teologi e non si era certo proposto un obiettivo del genere. Da giovane (racconta sempre nell'Autobiografia) era «assolutamente ortodosso» e faceva spesso ridere i suoi compagni per la serietà con cui citava la Bibbia. Abbastanza presto, però, si era reso conto:

... che l'Antico Testamento, con la sua storia della creazione così palesemente falsa, con la torre di Babele, con l'arcobaleno segnale di Dio, con l'attribuire a Dio i sentimenti di un tiranno vendicativo e via dicendo...

non meritava più fiducia dei libri sacri degli indù e delle credenze dei barbari. Così, a poco a poco era diventato miscredente, ma «la cosa avvenne così lentamente che non ebbi nessuna crisi». Ancora al tempo in cui scriveva l'Origine delle specie era convinto

... dell'estrema difficoltà, o piuttosto impossibilità, di concepire questo immenso e meraviglioso universo, ivi compreso l'uomo dotato della sua capacità di guardare nel lontano passato e nel lontano futuro, come frutto di cieco caso o di cieca necessità...

ed era propenso ad ammettere «una Prima Causa dotata di intelletto in qualche modo analogo a quello dell'uomo». Anche questa convinzione, però si era andata indebolendo col tempo.
Sorge infatti questo dubbio: la mente umana, che a quanto io fermamente credo è derivata da una mente estremamente bassa quale quella del più basso animale, la mente umana, dico, merita fiducia quando ricava conclusioni così grandiose? Non può darsi che il legame tra causa ed effetto, che si impone a noi come necessario, dipenda invece semplicemente da esperienza ereditaria? Né dobbiamo trascurare la possibilità che inculcando sistematicamente la credenza in Dio nelle menti dei bambini si produca nei loro cervelli non ancor completamente sviluppati un effetto così forte, e forse ereditario, che poi risulterà loro difficile sbarazzarsi della fede in Dio come alla scimmia riesce difficile sbarazzarsi del suo timore ed odio istintivo per il serpente.
Io non pretendo di gettar la minima luce su di un problema così astruso. Il mistero dell'inizio di tutte le cose è per noi insolubile, e a proposito di esso mi accontenterò di rimanere agnostico.

AGNOSTICISMO

Pare che il termine «agnosticismo» sia stato coniato nel 1869 dal naturalista inglese Thomas Henry Huxley (1825-1895), uno dei primi e dei più autorevoli sostenitori dell'evoluzionismo darwiniano. Derivato dal greco àgnostos (composto di a- privativo e gnòsis = «conoscenza»), indica l'atteggiamento di chi rifiuta di pronunciarsi su materie che sfuggono all'indagine scientifica e si sottraggono per definizione a qualsiasi possibilità di verifica. Si usa soprattutto in relazione a problemi metafisici o religiosi, come l'esistenza di Dio e simili.

Nel saggio Agnosticismo del 1889 Thomas Henry Huxley racconta come fosse arrivato a coniare il termine:

... Quando raggiunsi la maturità intellettuale e cominciai a chiedermi se ero ateo, teista o panteista, materialista o idealista, cristiano o libero pensatore, trovai che quanto più riflettevo e imparavo, tanto meno precisa era la risposta. Alla fine giunsi alla conclusione che, tranne l'ultimo, nessuno di questi termini mi si addiceva, neppure in parte. L'unica cosa in cui tutti quei bravi personaggi si trovavano d'accordo era proprio quella per la quale io differivo da loro. Ciascuno di loro si sentiva sicuro di aver raggiunto una certa gnosis, di aver risolto più o meno brillantemente il problema dell'esistenza. Io invece ero proprio sicuro di non averlo risolto ed ero fermamente convinto che fosse insolubile. E avendo Hume e Kant dalla mia, non posso pensare di essere un presuntuoso se insisto in questa opinione [...] Ho inventato l'appellativo di «agnostico» che mi sembrava appropriato. Mi venne in mente come antitesi suggestiva allo gnostico della Chiesa, a colui che professa di conoscere tanto proprio sulle cose delle quali io mi dichiaravo ignorante...
Thomas Henry Huxley


IL POSITIVISMO EVOLUZIONISTICO

Pare che la parola «evoluzione» nel significato attuale di modificazione dei caratteri propri delle diverse specie viventi sia stata usata per la prima volta da Lyell. Di certo non fu mai usata da Lamarck, che non adoperava neppure il suo equivalente «trasformismo». Lo stesso Darwin la usò poco, preferendo parlare di «discendenza con modificazioni». Il termine divenne popolare solo ad opera dell'inglese Herbert Spencer (1820-1903), che negli anni Cinquanta dell'Ottocento, ossia negli stessi anni di Darwin, ma in larga misura indipendentemente da lui, venne elaborando un sistema filosofico fondato appunto sulla nozione di evoluzione, ossia di sviluppo graduale.
Era inevitabile che tra l'evoluzionismo di Darwin e quello di Spencer ci fossero delle analogie; entrambi, tra l'altro, avevano il loro diretto antecedente nei Principi di geologia di Lyell. Ma tra i due evoluzionismi c'erano differenze fondamentali. Tanto per cominciare, quello di Darwin costituiva una teoria scientifica suscettibile di verifica e fondata su una massa imponente di osservazioni ed esperimenti. A parte le geniali sortite nel campo della psicologia, dell'antropologia culturale, e dell'etologia (soprattutto in La discendenza dell'uomo, 1871, e in L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali, 1872), il darwinismo restava una dottrina rigorosamente limitata al campo biologico e in questo stesso settore riconosceva delle lacune (prima fra tutte, come abbiamo visto, quella relativa ai meccanismi dell'ereditarietà, che si cominciò a colmare solo parecchi anni dopo la scomparsa di Darwin) presentandosi dunque come una ipotesi (altamente probabile nel suo nucleo essenziale, ma passibile di correzioni e perfezionamenti) e soprattutto come un programma di ricerca.
L'evoluzionismo di Spencer, invece, a dispetto della sua etichetta positivistica si presentava, alla maniera dei vecchi sistemi metafisici, come una concezione generale della natura e della società, uno schema di interpretazione buono ovunque e comunque, una chiave capace di aprire qualsiasi porta, una visione conclusiva, bell'e fatta. Non a caso, pur avendo una buona preparazione in campo scientifico, Spencer aveva cominciato ad applicare i suoi principi evoluzionistici proprio ai fenomeni sociali, psichici e culturali, dove l'incertezza era massima e dove poi, per tutta la seconda metà dell'Ottocento, avrebbero imperversato (con notevoli danni per il buon senso comune, ancora oggi non completamente sanati) innumerevoli tentativi di imitazione del darwinismo (si parla infatti di darwinismo sociale) basati sull'estensione del tutto impropria alla vita dei popoli, degli Stati, delle classi, ecc., dei principi della lotta per l'esistenza della selezione naturale e della sopravvivenza del più forte.
In secondo luogo Darwin non aveva mai neppure lontanamente immaginato di poter associare, come invece faceva esplicitamente Spencer, la nozione di evoluzione (o, meglio, di «discendenza con modificazioni») a quella di progresso, un concetto che implica una valutazione positiva del divenire, l'idea di un miglioramento continuo, del raggiungimento di obiettivi sempre più elevati, ecc. Nel campo dell'evoluzione biologica la nozione di progresso avrebbe avuto un senso solo in una visione di tipo teleologico quale era quella di Lamarck, di cui però il darwinismo costituiva la più conclusiva delle confutazioni; e non è inutile ricordare che Darwin aveva raccolto il suggerimento di una generale competizione degli esseri viventi da Malthus, che l'aveva usata proprio per confutare la credibilità dell'idea di progresso. Sta di fatto però che presso il grande pubblico l'idea di progresso, che aveva le sue radici nella constatazione dell'effettivo sviluppo tecnico-scientifico del tempo, parve trovare nelle teorie sull'evoluzione biologica una ulteriore conferma o quanto meno una convincente analogia. La realtà storico-sociale fu largamente interpretata come una sorta di organismo unitario, destinato necessariamente a svilupparsi e a progredire. Spencer definiva questa evoluzione come passaggio dal semplice al complesso, dal disorganizzato all'organizzato, dall'omogeneo, che è indefinito e incoerente, all'eterogeneo, che è definito e coerente. Il tutto avverrebbe secondo un oscuro processo di integrazione di materia e di dispersione di moto e si concluderebbe col raggiungimento della felicità generale.
Ma Spencer (e questa è la terza grande differenza con l'evoluzionismo di Darwin) dichiarava di ignorare quali fossero le cause di tale processo, né si dava la pena di ricercarle; il che poi gli permetteva di ipotizzare una realtà non indagabile scientificamente, l'Inconoscibile, esclusivo terreno di caccia della religione. Così, in un gran giro di parole, Spencer finiva per conciliare e assimilare ogni cosa con il suo contrario: natura e società, progresso e conservazione, esaltazione della scienza e timor di Dio, speranze illuministiche nell'avvento della felicità universale e certezze oscurantistiche circa l'immancabile trionfo del più forte. È quasi inutile aggiungere che proprio il carattere pasticciato e generico dell'evoluzionismo spenceriano gli assicurò uno straordinario successo presso ogni genere di confusionari e di orecchianti.

L'EVOLUZIONE CREATRICE

Lo sconcerto prodotto dall'evoluzionismo darwiniano negli ambienti dei teologi e, più in generale, dei pensatori di orientamento spiritualistico non poteva certo essere sanato dal banale accomodamento proposto da Spencer e consistente in una sorta di coabitazione tra una scienza, che avrebbe dovuto rinunciare a conoscere la realtà vera delle cose limitandosi alle apparenze, e una religione che, a sua volta, avrebbe dovuto accontentarsi di coltivare lo squallido orticello dell'Inconoscibile. Una reazione assai più vitale e costruttiva veniva da quanti, nell'impossibilità di negare la realtà dell'evoluzione biologica cercavano di sganciarla dall'interpretazione meccanicistica che ne aveva dato Darwin e di recuperarla ad una visione teleologica, tornando a immaginare l'esistenza di misteriose energie vitali e di slanci al perfezionamento, sul genere di quelli che un secolo prima erano stati ipotizzati da Lamarck e che Cuvier, ma da posizioni fissiste e creazioniste, aveva sprezzantemente (e giustamente) condannato come «sottigliezze metafisiche». Il più interessante tentativo in questa direzione fu compiuto all'inizio del Novecento (e nel quadro di un generale ritorno di dottrine idealistiche e spiritualistiche) dal francese Henri Bergson.
Bergson opponeva all'evoluzionismo meccanicistico di Darwin l'idea di una «evoluzione creatrice», secondo la quale tutta la realtà vivente, dal più piccolo essere unicellulare sino all'uomo, sarebbe attraversata da un misterioso impulso, lo «slancio vitale», che la spingerebbe a cercare, attraverso continui tentativi, forme sempre più evolute di organizzazione.
Nell'uomo, sosteneva Bergson, lo slancio vitale si esprime direttamente nella continuità del flusso della coscienza, la cui caratteristica principale è la temporalità. Il tempo della coscienza, però, non è il tempo astratto, «spazializzato», degli orologi, misurato dal moto delle lancette in uno spazio (il quadrante) frazionato in intervalli tutti uguali e discontinui, separati, cioè, l'uno dall'altro (ore, minuti, secondi): il tempo di cui la coscienza ha percezione concreta è continuità durata e cioè un fluire ininterrotto, variabile in intensità, o in qualità, non divisibile in intervalli uguali e perciò assolutamente non misurabile. Se ascoltiamo i rintocchi di un orologio che segna la mezzanotte possiamo percepirli come tutti uguali, oppure ciascuno con un timbro particolare: la percezione del primo, ad esempio, può accompagnarsi a un sentimento di sorpresa, quella dell'ultimo al disappunto perché non credevamo che fosse già così tardi. La prima esperienza corrisponde al tempo spazializzato, astratto, convenzionale della fisica, l'altra al tempo reale della coscienza. In questa seconda esperienza il tempo si rivela per quello che è: un flusso assolutamente unico, irripetibile, perché è vissuto diversamente da individuo a individuo e nello stesso individuo è vissuto diversamente in momenti diversi.
Questa dottrina evoluzionistica a sfondo teleologico era una vera e propria metafisica spiritualistica, poiché la «vita» di cui parlava Bergson non era affatto un fenomeno biologico positivamente definibile o scientificamente accertabile, ma un principio indefinito, infinito e inesauribile, e cioè una fantasiosa escogitazione buona a conciliare (come era nelle aspirazioni di alcuni settori del Cattolicesimo, specialmente francese) scienza e religione. Un tentativo analogo fu compiuto più tardi (ma riscuotendo scarso successo all'interno stesso della Chiesa cattolica) da un altro francese, il paleontologo e teologo gesuita Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), che ha riassunto le sue opinioni in questo breve credo:
[...]
Credo che l'Universo sia un'Evoluzione.
Credo che l'Evoluzione vada verso lo Spirito.
Credo che lo Spirito si compia in qualcosa di Personale.
Credo che il Personale supremo sia il Cristo-Universale...

HENRI BERGSON

Henri Bergson (1859-1941) cominciò a insegnare nelle grandi scuole parigine, l'Ecole Normale e il Collège de France, negli anni Novanta, ottenendo immediatamente, nonostante rivalità e gelosie di colleghi, uno straordinario successo. Dotato di grande comunicatività e convinto che, anche affrontando le più difficili questioni filosofiche, fosse doveroso parlare la lingua di tutti, Bergson sapeva affascinare i suoi ascoltatori. Le sue lezioni, affollate di studenti, ma anche di turisti e di personaggi della buona (e colta) società parigina, divennero una sorta di avvenimento mondano. Nel 1914 Bergson fu nominato accademico di Francia e nel 1928 ricevette il premio Nobel per la letteratura. Partito da forti interessi per la scienza e da una certa simpatia per il positivismo di Herbert Spencer, già negli anni Novanta era approdato a posizioni nettamente antimaterialistiche. Ebreo di nascita, le sue inclinazioni spiritualistiche lo spinsero a poco a poco a simpatizzare con la religione cattolica, alla quale in vecchiaia avrebbe volentieri aderito: non lo fece per solidarietà con i suoi antichi correligionari, che, nei Paesi a regime fascista, erano vittime di orribili persecuzioni.

A PROPOSITO DI EVOLUZIONISMO

La teoria di Darwin trovò subito sostenitori entusiasti e oppositori accaniti. Ma questa polemica non somiglia alle controversie che hanno animato lo sviluppo della scienza attraverso i secoli. Tanto per cominciare continua ancora adesso: e sono passati 130 anni dalla pubblicazione dell'Origine delle specie. Inoltre hanno partecipato alla polemica con uguale passione scienziati, filosofi, politici e preti (come si può immaginare, l'intervento delle ultime tre categorie non è stato molto positivo). Questa situazione, abbastanza rara, merita qualche spiegazione.
Prima di tutto l'evoluzionismo tocca da vicino - come Darwin, con tutte le cautele del caso, non si stancava di sottolineare - il problema delle origini: l'origine delle specie, l'origine dell'uomo, l'origine della vita. Sono cose su cui è difficile non prendere posizione, e in cui il pregiudizio religioso (e qualche volta anche politico: in URSS, durante lo stalinismo, le teorie genetiche di un certo Lysenko, largamente infondate, furono imposte all'intero mondo scientifico sovietico) rischia di prevalere sul ragionamento. Poi ci sono altri aspetti, legati alla natura propriamente scientifica della teoria.
All'inizio, l'evoluzionismo non aveva una struttura matematica. La teoria genetica dell'eredità, contenuta già nei lavori sui piselli (oggi celebri) di Gregor Mendel, contemporaneo di Darwin, rimasero completamente sconosciuti finché le stesse idee furono riscoperte, al volgere del secolo, da De Vries, Correns e von Tschermak. Prima di allora, la teoria (pur solida, a causa della genialità, della profonda onestà intellettuale e della enciclopedica cultura biologica di Darwin), non corrispondeva agli standard matematici che avevano reso feconda e insieme irresistibile la scienza contemporanea. Dopo, cominciò a corrispondervi sempre meglio; ma dovette fare i conti, in Occidente, con gli irrazionalismi, le estrapolazioni bergsoniane, gli antievoluzionismi religiosi, le utilizzazioni ciniche del «darwinismo sociale». Oggi che queste disgraziate ideologie sono disinvoltamente dimenticate, vengono fuori le vere difficoltà del darwinismo. Solo i più sciocchi, ormai, negano la realtà dell'evoluzione. Ma il darwinismo afferma ben di più che tale realtà: e questo di più ha tutta l'aria di essere almeno in parte sbagliato.
Due sono i punti oggi più criticati. La prima critica è la più venerabile: risale addirittura a Cuvier, prima di Darwin (allora era diretta, infatti, contro Lamarck) e riguarda la gradualità dell'evoluzione. Sembra difficile che un grandissimo numero di piccolissimi cambiamenti abbia portato ai grandi cambiamenti sia perché le forme intermedie forse sarebbero state male adattate, sia perché per lo più mancano i fossili di tali forme intermedie. Sono perciò popolari teorie dell'evoluzione più discontinue, come la teoria degli equilibri punteggiati o puntuati di Eldredge e Gould (di solito c'è un equilibrio ma in certi momenti o punti c'è un'evoluzione rapida, una specie di salto).
L'altra critica riguarda la selezione naturale, e nasce dal fatto che, come s'è scoperto, le proteine e il DNA mutano nel tempo con una frequenza di mutazioni piuttosto costante, sia che l'ambiente cambi sia che rimanga invariato. La distanza del DNA della carpa e di quello dell'uomo da quello del loro antenato comune sembra essere all'incirca la stessa, eppure quell'antenato viveva sicuramente in un ambiente simile a quello della carpa e sicuramente somigliava molto più a una carpa che a un uomo. Questa costanza è oggi addirittura utilizzata come orologio biologico per misurare la velocità dell'evoluzione. Niente dunque di più darwiniano, parrebbe. Eppure la cosa contrasta frontalmente con l'idea di Darwin secondo la quale senza selezione non c'è evoluzione. L'invece espressa nella teoria neutrale dell'evoluzione molecolare presentata dal biologo giapponese Moto Kimura.
Esiste qualche somiglianza tra lo status della teoria dell'evoluzione e quello della relatività generale. Anche questa è sempre stata oggetto di contestazione nei 70 e passa anni da quando fu proposta, e ha una base empirica ancora più fragile, ma è altrettanto profondamente soddisfacente dal punto di vista intellettuale. Anch'essa, guarda caso, tocca il problema delle origini: l'origine dell'Universo (e la sua fine).
Una differenza è nel carattere più rivoluzionario del darwinismo: in fondo, la relatività generale ha solo superato, inverandola, la teoria di Newton, e sarà, si spera, superata dalla teoria quantistica della gravitazione (per ora inesistente in forma completa). Un'ultima differenza sta, naturalmente, nella maggiore importanza della teoria dell'evoluzione, senza la quale buona parte della biologia sarebbe perfettamente incomprensibile.