LA SELVA DELLE SOMIGLIANZE
Classificare vuol
dire ordinare cose diverse in gruppi o «classi» a seconda delle loro
somiglianze o delle loro differenze. Somiglianze e differenze costituiscono
però un sistema di relazioni in cui non è facile districarsi: ogni
cosa può essere posta in relazione con un'infinità di altre cose,
e oggetti che appaiono molto simili sotto certi rispetti non lo sono affatto
sotto altri. Classificare significa dunque aprirsi una strada in questa selva di
relazioni, scegliere un criterio in base al quale privilegiare certi caratteri
rispetto ad altri, e decidere quali somiglianze valorizzare e quali
sacrificare.
Se si immagina che la natura risponda a un disegno razionale,
per esempio a un certo schema geometrico (come credevano Pitagorici e Platonici)
oppure al progetto di un Dio creatore (come credevano Ebrei e Cristiani) la
classificazione può, e in certi casi deve presentarsi come
interpretazione di tale disegno. Si parla allora di classificazione
«naturale», conforme cioè a un supposto «ordine
naturale» delle cose; si dice invece «artificiale» una
classificazione che procede secondo partizioni di comodo, senza preoccuparsi che
le classi così costruite corrispondano a qualcosa di realmente esistente
in natura.
Il primo grande tentativo di classificazione naturale delle
forme di vita è stato compiuto da Aristotele. Non si può dire che
l'impresa gli fosse riuscita benissimo. Il suo sistema faceva appello a criteri
molto eterogenei: tra gli animali, ad esempio, la prima grande divisione si
fondava sul sangue (animali con o senza sangue rosso), ma quelle successive si
basavano sui modi della locomozione e della riproduzione (quadrupedi vivipari e
quadrupedi ovipari), sulla natura dello scheletro (osseo o cartilagineo) o delle
protezioni esterne (scaglie o conchiglie), sulla forma delle estremità
(palmate, artigliate, ecc.), sulle abitudini alimentari (granivori, insettivori,
ecc.), e così via, senza che si potesse intravvedere un elemento
unificante. Nonostante i suoi limiti, la classificazione aristotelica
rappresentò una notevole impresa scientifica e restò un modello
per secoli.
Nel Rinascimento il problema di una razionale classificazione
delle forme viventi diventò per certi aspetti drammatico data la
necessità di trovare una collocazione alle innumerevoli nuove specie di
cui gli Europei erano venuti a conoscenza con l'esplorazione dell'Africa,
dell'Asia e delle Americhe: Linneo nel Settecento solo tra i vegetali
arrivò a classificare ben 18.000 specie contro le 5-600 note
nell'antichità classica. La difficoltà era sempre la stessa:
individuare negli organismi un carattere (o un insieme di caratteri), che
fornisse un criterio univoco per stabilire i confini delle singole specie e al
tempo stesso per valutare il grado di affinità tra specie
diverse.
Andrea Cesalpino (1519-1603) per non smarrirsi nell'indefinita
ricchezza delle forme naturali suggeriva di restringere la scelta dei caratteri
specifici ai soli organi coinvolti nelle funzioni vitali più importanti,
come la nutrizione, la riproduzione, ecc. Sul finire del Seicento Rudolph Jacob
Camerarius (1665-1721), raccogliendo i risultati di ricerche sue e di altri, in
una celebre Epistula de sexu plantarum riuscì a dimostrare che i fiori
sono portatori di organi sessuali e che la cooperazione dei sessi è
necessaria alla produzione di semenza fertile. La sessualità veniva
così riconosciuta come funzione comune a piante e animali, e diventava
una possibile base di nuove classificazioni. Alla fine risultò che i
caratteri sessuali si prestavano assai bene a questo scopo e anche il più
grande classificatore di tutti i tempi, Carlo Linneo, vi fece ampiamente
ricorso.
Linneo (nome italianizzato dello svedese Carl von Linné,
1707-1778), figlio primogenito di un pastore luterano, era un entusiasta
ammiratore dello straordinario disegno del creato, che, diceva, occorre scoprire
con cura paziente, rintracciando gli esseri viventi, descrivendoli,
classificandoli, battezzandoli, come appunto egli fece in tutta la sua vita con
quasi maniacale dedizione. Nel 1735 pubblicò il primo abbozzo, che
contava appena poche pagine, del suo fondamentale Systema Naturae (Sistema della
Natura), che alla decima edizione, nel 1758-59, avrebbe raggiunto i due tomi e
alla dodicesima, nel 1766-88, i quattro. Il Sistema della Natura proponeva un
sistema di classificazione degli organismi viventi fondato principalmente sui
meccanismi della riproduzione e adottava quella nomenclatura binaria (costituita
dai nomi latini del genere e della specie) che, escogitata da altri prima di
lui, si è imposta soprattutto per merito suo. È di Linneo
l'espressione, diventata poi proverbiale, Natura non facit saltus (cioè
«la Natura non fa salti», procede per differenze infinitesime) che
compendia l'antica concezione del mondo organico come una sorta di flusso
continuo, dove ogni forma di vita differisce dalle altre per variazioni
graduali, spesso impercettibili.
Questa immagine di una «grande catena
dell'Essere» che legherebbe in una serie continua tutti gli organismi, dal
più semplice al più complesso, è presente nel pensiero
occidentale fin da tempi remoti e può trovare una convincente spiegazione
nell'ipotesi (che nell'Ottocento fu detta «evoluzionista» o
«trasformista») della comune discendenza dei viventi da una forma
originaria o da un limitato numero di forme originarie («archetipi»,
come sarebbero stati chiamati nell'Ottocento). Presente in qualche modo negli
Ionici, in Empedocle e in Platone, l'ipotesi trasformista non ha incontrato
larghi consensi neppure nell'antichità classica. Il sistema aristotelico
di classificazione dei viventi, per esempio, aveva una caratteristica struttura
ad albero che richiamava l'idea di una generale parentela degli esseri: gli
individui che presentavano gli stessi caratteri «essenziali» erano
raggruppati in specie (rami secondari), le specie in generi (rami principali) e
i generi in classi via via più ampie (i ceppi comuni). Ma l'immagine che
ne risultava era quella di una gerarchia statica di forme viventi, non di un
processo di formazione delle specie per modificazioni successive. Sebbene l'idea
di sviluppo avesse un ruolo centrale nella sua filosofia, Aristotele riteneva
che solo gli individui fossero suscettibili di modificazioni: le specie
corrispondevano invece alle essenze degli individui, ossia a forme immutabili,
eterne. L'affermazione del Cristianesimo ha poi condannato definitivamente le
ipotesi evoluzionistiche, che contrastavano apertamente con l'idea della
creazione e con il racconto biblico.
In età moderna il ritrovamento
di un numero enorme di nuove forme animali e vegetali nelle terre di recente
scoperta confermò l'esistenza di un'infinita varietà di organismi,
riconducibile ad alcune strutture fondamentali. Tornarono così i dubbi
circa l'effettiva possibilità di separare rigorosamente una forma
dall'altra e riemerse l'ipotesi di una certa plasticità delle specie,
immerse in una sorta di flusso vitale continuo e graduale. Quelle stesse
scoperte, dimostrando quanto piccolo fosse il mondo fino a quel momento
conosciuto dagli Europei, lasciavano sperare che, se pure nella grande catena
degli esseri c'erano ancora dei vuoti, fosse possibile prima o poi reperire gli
«anelli mancanti», ossia le forme intermedie tra i grandi gruppi
animali e vegetali.
La convinzione dell'infinita gradualità delle
forme viventi si dimostrò tuttavia, ancora una volta, insufficiente a
indurre gli scienziati ad assumere un'ipotesi evolutiva. Linneo considerava le
specie entità naturali rigorosamente definite e, nei loro caratteri
essenziali, immutabili. Il suo assunto fondamentale era che esistono attualmente
tante specie di animali e vegetali quante erano state originariamente le forme
generate dal Creatore. Linneo era fissista anche per ragioni ideologiche, ossia
per fedeltà al racconto biblico. Ma la difficoltà più seria
stava nella nozione di specie quale era generalmente accolta. L'inglese John Ray
(1627-1705), l'aveva definita come gruppo di individui simili i cui caratteri
distintivi si perpetuano di padre in figlio, il che voleva dire che nessuna
specie può sorgere dal seme di un'altra. La «barriera della
sterilità» delimitava i confini delle specie: da individui di specie
diverse non nasce alcuna prole o nasce prole sterile. Il mulo, ad esempio,
ibrido di un asino e di una cavalla, non è in grado di avere a sua volta
dei figli; asini e cavalli sono dunque specie affini ma
diverse.
TASSONOMIA
La «tassonomia» (dal greco
tàssein = «ordinare», «classificare» e nòmos =
«norma», «regola») è la disciplina che si occupa
della classificazione e della nomenclatura degli esseri viventi e dei
fossili.
AFFINE/ANALOGO/OMOLOGO
«Somiglianza» è un termine
generico. Tra Sette e Ottocento nel tentativo di individuare il tipo di
relazione sul quale basare una classificazione naturale dei viventi, si è
molto insistito sulla necessità di distinguere tra somiglianze
«essenziali», o affinità, e le somiglianze o analogie
accidentali dovute a semplice adattamento. Sono forme «affini» quelle
che costituiscono modificazioni di uno stesso tipo di struttura:
l'affinità è dunque sinonimo di parentela biologica. Si dice
omologo (dal greco homòlogos = «simile»,
«corrispondente», composto di homòs = «simile» e
légein = «dire») un organo che, qualunque funzione svolga, si
ritrova più o meno modificato in specie diverse ma affini. Sono organi
omologhi, ad esempio, il braccio di un uomo, la zampa anteriore di un
quadrupede, l'ala di un uccello (hanno infatti la stessa struttura, anche se
svolgono funzioni diverse). Si dice analogo (dal greco anàlogos =
«proporzionale») l'organo che ha la stessa funzione che in un'altra
specie è svolta da un organo diverso. Sono organi analoghi, ad esempio,
le ali degli uccelli e quelle degli insetti (hanno infatti la stessa funzione,
ma strutture completamente diverse).
EVOLUZIONISMO E FISSISMO
Una prima ipotesi evolutiva è stata
adombrata nel Settecento dal naturalista francese Georges Louis Leclerc, conte
di Buffon (1707-1788) direttore dei giardini reali a Parigi. Buffon non era
evoluzionista nel senso attuale del termine, ma riteneva che solo gli individui
fossero realmente esistenti, mentre le specie non sarebbero state che
astrazioni, pure costruzioni mentali: parlare di fissità della specie non
aveva dunque molto senso. Certo, anche Buffon non poteva non prendere atto della
barriera della sterilità, ed accettava la definizione di specie come
gruppo di individui interfecondi, ma, scriveva:
...una volta
dimostrato che fra gli animali e i vegetali ci siano state non dico parecchie
specie, ma anche una sola prodotta per discendenza diretta da un'altra specie
[...] non dovremmo andare errati se supponessimo che durante un periodo di tempo
abbastanza lungo la Natura possa aver sviluppato tutte le forme organiche a
partire da un unico tipo originario...
Un periodo sufficientemente
lungo di tempo sembrava esserci stato davvero giacché Buffon, sulla base
di numerosi indizi soprattutto di carattere geologico, attribuiva alla Terra
un'età di almeno centomila anni, una cifra che, sulla base delle attuali
conoscenze appare ridicolmente piccola, ma che allora sembrava enorme,
confrontata con i cinque o seimila anni in tutto che risultavano dalla
testimonianza, ancora generalmente accettata, della Bibbia.
L'ipotesi di
una evoluzione organica era inserita da Buffon nel quadro di una più
ampia visione dell'evoluzione cosmica. La Terra, secondo Buffon, sarebbe nata da
una massa fluida e incandescente staccatasi dal Sole, che si sarebbe poi
lentamente raffreddata (un'ipotesi del genere fu formulata anche da Immanuel
Kant e, più autorevolmente, da Pierre-Simon Laplace). Nel corso del
raffreddamento si sarebbero prodotte condizioni favorevoli alla comparsa della
vita, che, dotata all'inizio di grande plasticità, si sarebbe espressa in
una straordinaria varietà di forme. Solo con l'ulteriore raffreddamento
del globo questa plasticità sarebbe diminuita e le specie sarebbero
diventate tipi fissi, geneticamente non comunicabili.
Le idee di Buffon,
duramente attaccate dalle autorità ecclesiastiche, vennero riprese e
sviluppate in una vera e propria teoria evoluzionistica da un suo allievo, Jean
Baptiste Lamarck (1744-1829). Lamarck era convinto che fosse possibile
dimostrare con osservazioni ed esperimenti la realtà dell'evoluzione; a
ragione, però, gli fu più tardi rimproverato di aver costruito la
sua teoria su un assunto di carattere apertamente metafisico. Lamarck supponeva
l'esistenza di una capacità di perfezionamento insita nella vita e tale
da promuovere l'evoluzione organica lungo una scala di crescente
complessità culminante nell'uomo. Su questo supposto teleologico Lamarck
inseriva poi il principio, anch'esso scarsamente suffragato da prove,
dell'adattamento degli organismi all'ambiente in cui vivono. In particolare,
secondo Lamarck, l'esercizio ripetuto di alcune attività svilupperebbe i
relativi organi, e i caratteri così acquisiti potrebbero essere
trasmessi, per ereditarietà, alle generazioni future.
Non fu
difficile a Georges Cuvier (1769-1832), l'autorevole fondatore della moderna
anatomia comparata e della paleontologia, attaccare le teorie di Lamarck come
inverificabili «sottigliezze metafisiche». Il caso di Cuvier è
tuttavia curioso: anche se le spiegazioni che ne dava Lamarck erano
inaccettabili, il fatto dell'evoluzione organica trovava le conferme più
convincenti proprio nella paleontologia e nell'anatomia comparata di cui era
maestro.
Ma non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere: pur avendo
continuamente sotto gli occhi le tracce dell'evoluzione organica, Cuvier era
rigorosamente fissista. Anche l'idea tradizionale di una grande «catena
dell'Essere», che aveva esercitato una forte suggestione su Lamarck, gli
appariva un'«immaginazione ridicola»: secondo lui non c'era alcuna
scala lineare degli esseri, i grandi gruppi animali e vegetali erano
reciprocamente irriducibili e la ricerca degli «anelli mancanti»
un'impresa illusoria. Considerava le specie come modificazioni dei tipi
fondamentali a cui riconduceva (ma solo da un punto di vista descrittivo e
classificatorio sicché si trattava di «archetipi» puramente
ideali) i grandi gruppi di esseri viventi, e immaginava che esistesse un qualche
fattore a cui imputare tali modificazioni. Poiché, però, come
Newton, non voleva «fingere ipotesi», non sapeva e non voleva
immaginare quale potesse essere questo fattore. Salvo poi tentare di conciliare
il suo fissismo con le innumerevoli testimonianze di antiche forme di vita ormai
estinte, «fingendo» un'ipotesi molto più azzardata di quella
dell'evoluzione, nota come «teoria delle catastrofi»: la Terra,
secondo questa teoria, avrebbe subito una serie di diluvi universali (l'ultimo
sarebbe stato quello di Noè) ciascuno dei quali avrebbe determinato la
scomparsa di gran parte delle popolazioni animali e
vegetali.
L'autorità di Cuvier (che, tra l'altro, si appoggiava ad
una singolare influenza sul potere politico, conservata a dispetto di tutti i
cambiamenti di regime avvenuti nel primo Ottocento in Francia) riuscì a
mettere in ombra per lungo tempo, almeno nell'ambiente accademico francese, le
idee di Lamarck e più in generale le ipotesi evoluzionistiche. Ma la sua
teoria delle catastrofi non resse a lungo alle critiche degli scienziati e
soprattutto a quelle del geologo inglese Charles Lyell (1797-1875). Lyell
seguiva una teoria detta attualismo, secondo la quale le varie trasformazioni
verificatesi sulla crosta terrestre nel passato dovevano essere interpretate
sulla base degli stessi processi attualmente in corso, e non invocando eventi
eccezionali sul genere delle catastrofi di Cuvier. Naturalmente, poiché
le modificazioni indotte dai fattori attualmente operanti risultano spesso
impercettibili, per spiegare la configurazione attuale della crosta terrestre
era necessario ipotizzare tempi lunghissimi, calcolabili non in migliaia, ma in
milioni di anni (oggi sappiamo che in realtà si tratta di
miliardi).
I principi dell'attualismo e i lavori di Lyell nel campo
dell'evoluzione geologica hanno costituito la premessa necessaria della teoria
darwiniana dell'evoluzione biologica. Ma per Darwin quasi altrettanto importante
come fonte di ispirazione è stata l'opera di un economista, l'inglese
Thomas Robert Malthus (1766-1834) che nel 1798 aveva pubblicato il Saggio sul
principio di popolazione. Si trattava di uno scritto polemico nel quale, non
senza un certo gusto per il paradosso, Malthus si proponeva di dimostrare
l'impossibilità di un progresso stabile dell'umanità,
perché, diceva, mentre le risorse alimentari sono limitate, le
capacità riproduttive degli uomini sono indefinite e i ritmi di crescita
della popolazione molto più alti di quelli della produzione dei mezzi di
sussistenza.
Ne conseguiva che lo squilibrio tra bisogni e risorse, da cui
nascono fame, miseria, malattie, guerre, diseguaglianze, doveva essere
considerato non la conseguenza di una cattiva organizzazione sociale, ma un
elemento permanente della storia, destinato anzi ad aggravarsi costantemente. Si
trattava, secondo Malthus, di una legge di natura valida per qualsiasi forma di
vita.
... La natura ha sparso i semi della vita con la massima
profusione e generosità in tutto il mondo animale e vegetale. È
stata invece relativamente parsimoniosa nel provvedere spazio e nutrimento
necessari ad alimentarli e a farli crescere. La razza delle piante e quella
degli animali si contraggono per effetto di questa grande legge limitativa. La
razza dell'uomo non può con nessuno sforzo della ragione sfuggire a
questa legge. Tra le piante e tra gli animali i suoi effetti sono lo spreco di
seme, le malattie, la morte prematura. Fra gli uomini sono la miseria e il
vizio...
Per quanto riguarda l'umanità, lo squilibrio tra
popolazione e risorse non è affatto ineliminabile, e lo stesso Malthus
indicava dei rimedi (suggeriva per esempio di porre sotto controllo l'incremento
demografico in modo da non vanificare costantemente l'aumento delle risorse
ottenibile con il miglioramento dei metodi di produzione). Ma l'immagine di una
continua competizione dei viventi, individui e specie, per impadronirsi delle
risorse che sono necessarie alla sopravvivenza e che si presentano sempre in
quantità limitate, ha fornito a Darwin il modello della sua teoria della
selezione naturale, che ha dato finalmente all'ipotesi trasformista, suggerita
da innumerevoli indizi, una base rigorosamente scientifica.
Formulata
già negli anni Quaranta, e nota nelle linee essenziali ad un gruppetto di
scienziati (tra cui Lyell) questa teoria è diventata oggetto di infinite
discussioni con la pubblicazione nel 1859 de L'origine delle specie per opera
della selezione naturale. In questo libro, in aperta polemica con il
teleologismo di Lamarck, Darwin metteva subito in evidenza quello che è
il carattere più importante del fenomeno evolutivo, ossia la sua assoluta
casualità. Tutti gli organismi tendono a variare dai loro genitori, ma
questa variabilità non ha un indirizzo preciso, connesso, come pretendeva
Lamarck, ad una misteriosa tendenza al perfezionamento: si sviluppa a caso, in
tutte le direzioni. Tuttavia solo le variazioni utili (quelle cioè che
consentono un miglior adattamento all'ambiente) vengono conservate,
perché gli organismi che sono portatori di variazioni non utili sono
sfavoriti nella competizione per la sopravvivenza e sono quindi destinati prima
o poi a scomparire. Se, ad esempio, per effetto di un cambiamento più o
meno brusco del clima la temperatura media si abbassa, all'interno di una certa
popolazione animale gli individui a pelo lungo e folto si troveranno
probabilmente avvantaggiati rispetto agli individui a pelo rado e corto
(vivranno di più e avranno maggiori probabilità di riprodursi); se
le nuove condizioni climatiche permangono per un tempo sufficientemente lungo
è possibile che, nel giro di alcune generazioni, tutta la popolazione
finisca col presentare il pelo lungo; può anche succedere infatti che gli
individui a pelo corto e rado non riescano a sopravvivere fino all'età
della riproduzione e che pertanto non siano in grado di trasmettere ai propri
figli il carattere di cui sono portatori. L'adattamento all'ambiente, non
è dunque la causa dell'evoluzione, come voleva Lamarck (per il quale del
resto «causa» valeva come «causa finale»), ma semmai ne
è la conseguenza, nel senso che l'evoluzione fa sorgere casualmente una
serie di caratteri nuovi tra i quali, nel corso delle generazioni e per effetto
della competizione, emergono quelli più favorevoli alla
sopravvivenza.
La teoria darwiniana dell'evoluzione incontrò subito
molte resistenze. Ostili furono soprattutto le Chiese cristiane, che vedevano
nuovamente sconvolto l'assetto teorico che bene o male erano riuscite a darsi
dopo lo scossone della cosiddetta «rivoluzione copernicana» e dopo il
trionfo del meccanicismo newtoniano. Ostile però era anche un certo senso
comune che ha sempre preferito vedere nell'uomo il frutto degenere di una
creatura superiore (un angelo, per esempio) macchiata dal peccato, piuttosto che
il risultato di una lenta ascesa da un essere inferiore. Anche Buffon, quando
aveva avanzato le sue ipotesi trasformiste aveva essenzialmente pensato a
processi degenerativi nei quali le scimmie sarebbero apparse come forme
degradate dell'uomo, e non viceversa. Darwin, invece, faceva «discendere
l'uomo dalle scimmie», per dirla con la frase con cui il grande pubblico
credette (erroneamente) di poter sintetizzare le sue tesi.
A parte queste
opposizioni di carattere scopertamente ideologico, le teorie darwiniane
suscitarono parecchie riserve anche negli ambienti scientifici più
informati. La teoria selezionista, ad esempio, non sembrava sufficiente a
spiegare tutta la storia dell'evoluzione. Lo stesso Darwin dette qualche segno
di cedimento in direzione del teleologismo, ammettendo che qualche fattore di
tipo lamarkiano potesse intervenire nel processo evolutivo. Darwin aveva
lamentato che le leggi della trasmissione dei caratteri da una generazione
all'altra fossero ancora in gran parte sconosciute e aveva indicato nei
meccanismi dell'ereditarietà uno dei principali settori verso i quali
indirizzare le future ricerche. In realtà questi fenomeni avevano
cominciato ad essere studiati da un monaco austriaco, Gregor Mendel (1822-1884),
che negli anni Sessanta pubblicò i risultati delle sue ricerche. Nessuno
però si accorse della cosa o la prese in seria considerazione e quando,
sul finire del secolo, qualcuno finalmente tornò a leggere i vecchi
articoli di Mendel, le leggi da lui formulate parvero confermare la
stabilità delle specie piuttosto che la loro variabilità.
La
crisi del darwinismo ai primi del Novecento ha coinciso con la rinascita di
correnti idealistiche, irrazionalistiche e con la riproposizione di concezioni
vitalistiche e teleologistiche dell'evoluzione, come quella
dell'«evoluzione creatrice» (il libro con questo titolo fu pubblicato
nel 1907 ed ebbe uno straordinario successo di pubblico) del filosofo francese
Henri Bergson. Sotto le dure critiche dell'idealismo si fece più
pressante negli scienziati l'esigenza di conoscere in modo completo e
approfondito le cause della variabilità ed i meccanismi di trasmissione
dei caratteri. Nacque così verso il 1910 un nuovo ramo della biologia, la
genetica o scienza dell'ereditarietà.
La genetica ha dato finalmente
una risposta esauriente a questi problemi portando un contributo sostanziale
alla teoria evoluzionista. Il campo di applicazione della genetica riguarda
soprattutto la variabilità e l'evoluzione nell'ambito della specie,
quella cioè che va sotto il nome di specificazione o microevoluzione. Si
tratta di un fenomeno che può realizzarsi in un tempo relativamente breve
ed è riproducibile in laboratorio; si presta quindi abbastanza facilmente
all'analisi sperimentale.
Non si può dire la stessa cosa della
macroevoluzione, che riguarda passaggi più ampi, come da una classe
all'altra (per esempio dai rettili agli uccelli), che richiedono tempi
lunghissimi per realizzarsi e sfuggono inevitabilmente all'osservazione
diretta.
DARWIN E IL BUON DIO
La straordinaria risonanza delle teorie
darwiniane è in gran parte dovuta all'effetto devastante che hanno avuto
su quello che è sempre stato il più convincente argomento a favore
dell'esistenza di Dio: la bellezza del Creato, l'inesauribile varietà di
forme e di meccanismi che si trovano in natura e che, manifestando l'esistenza
di un disegno straordinariamente complicato, rinviano a un artefice
infinitamente potente e intelligente. Questo argomento era stato ripreso ed
illustrato agli inizi dell'Ottocento in un libro di grande successo, Natural
Theology (Teologia naturale; il sottotitolo specificava: Prove dell'esistenza e
degli attributi della divinità tratte dalle manifestazioni della Natura)
di un noto teologo inglese, William Paley (1753-1805). Noi, diceva Paley, se
vediamo un orologio in mezzo a un prato non possiamo non domandarci come ci sia
arrivato, perché di sicuro qualcuno l'ha costruito e qualcuno l'ha
portato fin lì; l'orologio è un meccanismo complicato, ma i fili
d'erba tra i quali è finito sono infinitamente più complicati;
eppure gli atei non si domandano mai chi li abbia costruiti, non si stupiscono
della loro esistenza, immaginano che stiano lì per caso. Le teorie di
Darwin dimostravano appunto che per spiegare la straordinaria complessità
di cui è capace la vita non era affatto necessario ipotizzare un disegno
consapevole. Come Darwin scriveva nell'Autobiografia (pubblicata postuma nel
1887):
... il vecchio argomento della finalità della natura,
come lo espone il Paley e che un tempo mi pareva tanto decisivo, viene a cadere
ora che è stata scoperta la legge della selezione naturale. Evidentemente
non ci è più possibile sostenere, per esempio, che la bella
cerniera della conchiglia d'un mollusco bivalve debba essere stata fatta da un
essere intelligente, allo stesso modo che la cerniera di una porta dev'esser
costruita dall'uomo. Ed a me non pare che ci sia più finalità
nella variabilità degli organismi viventi e nell'azione della selezione
naturale, di quanta ve ne sia nel soffiare del vento...
Ma Darwin,
almeno all'inizio, non aveva immaginato che le sue scoperte potessero mettere in
imbarazzo i teologi e non si era certo proposto un obiettivo del genere. Da
giovane (racconta sempre nell'Autobiografia) era «assolutamente
ortodosso» e faceva spesso ridere i suoi compagni per la serietà con
cui citava la Bibbia. Abbastanza presto, però, si era reso
conto:
... che l'Antico Testamento, con la sua storia della creazione
così palesemente falsa, con la torre di Babele, con l'arcobaleno segnale
di Dio, con l'attribuire a Dio i sentimenti di un tiranno vendicativo e via
dicendo...
non meritava più fiducia dei libri sacri degli
indù e delle credenze dei barbari. Così, a poco a poco era
diventato miscredente, ma «la cosa avvenne così lentamente che non
ebbi nessuna crisi». Ancora al tempo in cui scriveva l'Origine delle specie
era convinto
... dell'estrema difficoltà, o piuttosto
impossibilità, di concepire questo immenso e meraviglioso universo, ivi
compreso l'uomo dotato della sua capacità di guardare nel lontano passato
e nel lontano futuro, come frutto di cieco caso o di cieca
necessità...
ed era propenso ad ammettere «una Prima
Causa dotata di intelletto in qualche modo analogo a quello dell'uomo».
Anche questa convinzione, però si era andata indebolendo col
tempo.
Sorge infatti questo dubbio: la mente umana, che a quanto io
fermamente credo è derivata da una mente estremamente bassa quale quella
del più basso animale, la mente umana, dico, merita fiducia quando ricava
conclusioni così grandiose? Non può darsi che il legame tra causa
ed effetto, che si impone a noi come necessario, dipenda invece semplicemente da
esperienza ereditaria? Né dobbiamo trascurare la possibilità che
inculcando sistematicamente la credenza in Dio nelle menti dei bambini si
produca nei loro cervelli non ancor completamente sviluppati un effetto
così forte, e forse ereditario, che poi risulterà loro difficile
sbarazzarsi della fede in Dio come alla scimmia riesce difficile sbarazzarsi del
suo timore ed odio istintivo per il serpente.
Io non pretendo di gettar la
minima luce su di un problema così astruso. Il mistero dell'inizio di
tutte le cose è per noi insolubile, e a proposito di esso mi
accontenterò di rimanere agnostico.
AGNOSTICISMO
Pare che il termine
«agnosticismo» sia stato coniato nel 1869 dal naturalista inglese
Thomas Henry Huxley (1825-1895), uno dei primi e dei più autorevoli
sostenitori dell'evoluzionismo darwiniano. Derivato dal greco àgnostos
(composto di a- privativo e gnòsis = «conoscenza»), indica
l'atteggiamento di chi rifiuta di pronunciarsi su materie che sfuggono
all'indagine scientifica e si sottraggono per definizione a qualsiasi
possibilità di verifica. Si usa soprattutto in relazione a problemi
metafisici o religiosi, come l'esistenza di Dio e simili.
Nel saggio
Agnosticismo del 1889 Thomas Henry Huxley racconta come fosse arrivato a coniare
il termine:
... Quando raggiunsi la maturità intellettuale e
cominciai a chiedermi se ero ateo, teista o panteista, materialista o idealista,
cristiano o libero pensatore, trovai che quanto più riflettevo e
imparavo, tanto meno precisa era la risposta. Alla fine giunsi alla conclusione
che, tranne l'ultimo, nessuno di questi termini mi si addiceva, neppure in
parte. L'unica cosa in cui tutti quei bravi personaggi si trovavano d'accordo
era proprio quella per la quale io differivo da loro. Ciascuno di loro si
sentiva sicuro di aver raggiunto una certa gnosis, di aver risolto più o
meno brillantemente il problema dell'esistenza. Io invece ero proprio sicuro di
non averlo risolto ed ero fermamente convinto che fosse insolubile. E avendo
Hume e Kant dalla mia, non posso pensare di essere un presuntuoso se insisto in
questa opinione [...] Ho inventato l'appellativo di «agnostico» che mi
sembrava appropriato. Mi venne in mente come antitesi suggestiva allo gnostico
della Chiesa, a colui che professa di conoscere tanto proprio sulle cose delle
quali io mi dichiaravo ignorante...
Thomas Henry Huxley
IL POSITIVISMO EVOLUZIONISTICO
Pare che la parola «evoluzione»
nel significato attuale di modificazione dei caratteri propri delle diverse
specie viventi sia stata usata per la prima volta da Lyell. Di certo non fu mai
usata da Lamarck, che non adoperava neppure il suo equivalente
«trasformismo». Lo stesso Darwin la usò poco, preferendo
parlare di «discendenza con modificazioni». Il termine divenne
popolare solo ad opera dell'inglese Herbert Spencer (1820-1903), che negli anni
Cinquanta dell'Ottocento, ossia negli stessi anni di Darwin, ma in larga misura
indipendentemente da lui, venne elaborando un sistema filosofico fondato appunto
sulla nozione di evoluzione, ossia di sviluppo graduale.
Era inevitabile
che tra l'evoluzionismo di Darwin e quello di Spencer ci fossero delle analogie;
entrambi, tra l'altro, avevano il loro diretto antecedente nei Principi di
geologia di Lyell. Ma tra i due evoluzionismi c'erano differenze fondamentali.
Tanto per cominciare, quello di Darwin costituiva una teoria scientifica
suscettibile di verifica e fondata su una massa imponente di osservazioni ed
esperimenti. A parte le geniali sortite nel campo della psicologia,
dell'antropologia culturale, e dell'etologia (soprattutto in La discendenza
dell'uomo, 1871, e in L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali,
1872), il darwinismo restava una dottrina rigorosamente limitata al campo
biologico e in questo stesso settore riconosceva delle lacune (prima fra tutte,
come abbiamo visto, quella relativa ai meccanismi dell'ereditarietà, che
si cominciò a colmare solo parecchi anni dopo la scomparsa di Darwin)
presentandosi dunque come una ipotesi (altamente probabile nel suo nucleo
essenziale, ma passibile di correzioni e perfezionamenti) e soprattutto come un
programma di ricerca.
L'evoluzionismo di Spencer, invece, a dispetto della
sua etichetta positivistica si presentava, alla maniera dei vecchi sistemi
metafisici, come una concezione generale della natura e della società,
uno schema di interpretazione buono ovunque e comunque, una chiave capace di
aprire qualsiasi porta, una visione conclusiva, bell'e fatta. Non a caso, pur
avendo una buona preparazione in campo scientifico, Spencer aveva cominciato ad
applicare i suoi principi evoluzionistici proprio ai fenomeni sociali, psichici
e culturali, dove l'incertezza era massima e dove poi, per tutta la seconda
metà dell'Ottocento, avrebbero imperversato (con notevoli danni per il
buon senso comune, ancora oggi non completamente sanati) innumerevoli tentativi
di imitazione del darwinismo (si parla infatti di darwinismo sociale) basati
sull'estensione del tutto impropria alla vita dei popoli, degli Stati, delle
classi, ecc., dei principi della lotta per l'esistenza della selezione naturale
e della sopravvivenza del più forte.
In secondo luogo Darwin non
aveva mai neppure lontanamente immaginato di poter associare, come invece faceva
esplicitamente Spencer, la nozione di evoluzione (o, meglio, di
«discendenza con modificazioni») a quella di progresso, un concetto
che implica una valutazione positiva del divenire, l'idea di un miglioramento
continuo, del raggiungimento di obiettivi sempre più elevati, ecc. Nel
campo dell'evoluzione biologica la nozione di progresso avrebbe avuto un senso
solo in una visione di tipo teleologico quale era quella di Lamarck, di cui
però il darwinismo costituiva la più conclusiva delle
confutazioni; e non è inutile ricordare che Darwin aveva raccolto il
suggerimento di una generale competizione degli esseri viventi da Malthus, che
l'aveva usata proprio per confutare la credibilità dell'idea di
progresso. Sta di fatto però che presso il grande pubblico l'idea di
progresso, che aveva le sue radici nella constatazione dell'effettivo sviluppo
tecnico-scientifico del tempo, parve trovare nelle teorie sull'evoluzione
biologica una ulteriore conferma o quanto meno una convincente analogia. La
realtà storico-sociale fu largamente interpretata come una sorta di
organismo unitario, destinato necessariamente a svilupparsi e a progredire.
Spencer definiva questa evoluzione come passaggio dal semplice al complesso, dal
disorganizzato all'organizzato, dall'omogeneo, che è indefinito e
incoerente, all'eterogeneo, che è definito e coerente. Il tutto
avverrebbe secondo un oscuro processo di integrazione di materia e di
dispersione di moto e si concluderebbe col raggiungimento della felicità
generale.
Ma Spencer (e questa è la terza grande differenza con
l'evoluzionismo di Darwin) dichiarava di ignorare quali fossero le cause di tale
processo, né si dava la pena di ricercarle; il che poi gli permetteva di
ipotizzare una realtà non indagabile scientificamente, l'Inconoscibile,
esclusivo terreno di caccia della religione. Così, in un gran giro di
parole, Spencer finiva per conciliare e assimilare ogni cosa con il suo
contrario: natura e società, progresso e conservazione, esaltazione della
scienza e timor di Dio, speranze illuministiche nell'avvento della
felicità universale e certezze oscurantistiche circa l'immancabile
trionfo del più forte. È quasi inutile aggiungere che proprio il
carattere pasticciato e generico dell'evoluzionismo spenceriano gli
assicurò uno straordinario successo presso ogni genere di confusionari e
di orecchianti.
L'EVOLUZIONE CREATRICE
Lo sconcerto prodotto dall'evoluzionismo
darwiniano negli ambienti dei teologi e, più in generale, dei pensatori
di orientamento spiritualistico non poteva certo essere sanato dal banale
accomodamento proposto da Spencer e consistente in una sorta di coabitazione tra
una scienza, che avrebbe dovuto rinunciare a conoscere la realtà vera
delle cose limitandosi alle apparenze, e una religione che, a sua volta, avrebbe
dovuto accontentarsi di coltivare lo squallido orticello dell'Inconoscibile. Una
reazione assai più vitale e costruttiva veniva da quanti,
nell'impossibilità di negare la realtà dell'evoluzione biologica
cercavano di sganciarla dall'interpretazione meccanicistica che ne aveva dato
Darwin e di recuperarla ad una visione teleologica, tornando a immaginare
l'esistenza di misteriose energie vitali e di slanci al perfezionamento, sul
genere di quelli che un secolo prima erano stati ipotizzati da Lamarck e che
Cuvier, ma da posizioni fissiste e creazioniste, aveva sprezzantemente (e
giustamente) condannato come «sottigliezze metafisiche». Il più
interessante tentativo in questa direzione fu compiuto all'inizio del Novecento
(e nel quadro di un generale ritorno di dottrine idealistiche e
spiritualistiche) dal francese Henri Bergson.
Bergson opponeva
all'evoluzionismo meccanicistico di Darwin l'idea di una «evoluzione
creatrice», secondo la quale tutta la realtà vivente, dal più
piccolo essere unicellulare sino all'uomo, sarebbe attraversata da un misterioso
impulso, lo «slancio vitale», che la spingerebbe a cercare, attraverso
continui tentativi, forme sempre più evolute di
organizzazione.
Nell'uomo, sosteneva Bergson, lo slancio vitale si esprime
direttamente nella continuità del flusso della coscienza, la cui
caratteristica principale è la temporalità. Il tempo della
coscienza, però, non è il tempo astratto,
«spazializzato», degli orologi, misurato dal moto delle lancette in
uno spazio (il quadrante) frazionato in intervalli tutti uguali e discontinui,
separati, cioè, l'uno dall'altro (ore, minuti, secondi): il tempo di cui
la coscienza ha percezione concreta è continuità durata e
cioè un fluire ininterrotto, variabile in intensità, o in
qualità, non divisibile in intervalli uguali e perciò
assolutamente non misurabile. Se ascoltiamo i rintocchi di un orologio che segna
la mezzanotte possiamo percepirli come tutti uguali, oppure ciascuno con un
timbro particolare: la percezione del primo, ad esempio, può
accompagnarsi a un sentimento di sorpresa, quella dell'ultimo al disappunto
perché non credevamo che fosse già così tardi. La prima
esperienza corrisponde al tempo spazializzato, astratto, convenzionale della
fisica, l'altra al tempo reale della coscienza. In questa seconda esperienza il
tempo si rivela per quello che è: un flusso assolutamente unico,
irripetibile, perché è vissuto diversamente da individuo a
individuo e nello stesso individuo è vissuto diversamente in momenti
diversi.
Questa dottrina evoluzionistica a sfondo teleologico era una vera
e propria metafisica spiritualistica, poiché la «vita» di cui
parlava Bergson non era affatto un fenomeno biologico positivamente definibile o
scientificamente accertabile, ma un principio indefinito, infinito e
inesauribile, e cioè una fantasiosa escogitazione buona a conciliare
(come era nelle aspirazioni di alcuni settori del Cattolicesimo, specialmente
francese) scienza e religione. Un tentativo analogo fu compiuto più tardi
(ma riscuotendo scarso successo all'interno stesso della Chiesa cattolica) da un
altro francese, il paleontologo e teologo gesuita Pierre Teilhard de Chardin
(1881-1955), che ha riassunto le sue opinioni in questo breve
credo:
[...]
Credo che l'Universo sia un'Evoluzione.
Credo che
l'Evoluzione vada verso lo Spirito.
Credo che lo Spirito si compia in
qualcosa di Personale.
Credo che il Personale supremo sia il
Cristo-Universale...
HENRI BERGSON
Henri Bergson (1859-1941) cominciò a
insegnare nelle grandi scuole parigine, l'Ecole Normale e il Collège de
France, negli anni Novanta, ottenendo immediatamente, nonostante rivalità
e gelosie di colleghi, uno straordinario successo. Dotato di grande
comunicatività e convinto che, anche affrontando le più difficili
questioni filosofiche, fosse doveroso parlare la lingua di tutti, Bergson sapeva
affascinare i suoi ascoltatori. Le sue lezioni, affollate di studenti, ma anche
di turisti e di personaggi della buona (e colta) società parigina,
divennero una sorta di avvenimento mondano. Nel 1914 Bergson fu nominato
accademico di Francia e nel 1928 ricevette il premio Nobel per la letteratura.
Partito da forti interessi per la scienza e da una certa simpatia per il
positivismo di Herbert Spencer, già negli anni Novanta era approdato a
posizioni nettamente antimaterialistiche. Ebreo di nascita, le sue inclinazioni
spiritualistiche lo spinsero a poco a poco a simpatizzare con la religione
cattolica, alla quale in vecchiaia avrebbe volentieri aderito: non lo fece per
solidarietà con i suoi antichi correligionari, che, nei Paesi a regime
fascista, erano vittime di orribili persecuzioni.
A PROPOSITO DI EVOLUZIONISMO
La teoria di Darwin trovò subito
sostenitori entusiasti e oppositori accaniti. Ma questa polemica non somiglia
alle controversie che hanno animato lo sviluppo della scienza attraverso i
secoli. Tanto per cominciare continua ancora adesso: e sono passati 130 anni
dalla pubblicazione dell'Origine delle specie. Inoltre hanno partecipato alla
polemica con uguale passione scienziati, filosofi, politici e preti (come si
può immaginare, l'intervento delle ultime tre categorie non è
stato molto positivo). Questa situazione, abbastanza rara, merita qualche
spiegazione.
Prima di tutto l'evoluzionismo tocca da vicino - come Darwin,
con tutte le cautele del caso, non si stancava di sottolineare - il problema
delle origini: l'origine delle specie, l'origine dell'uomo, l'origine della
vita. Sono cose su cui è difficile non prendere posizione, e in cui il
pregiudizio religioso (e qualche volta anche politico: in URSS, durante lo
stalinismo, le teorie genetiche di un certo Lysenko, largamente infondate,
furono imposte all'intero mondo scientifico sovietico) rischia di prevalere sul
ragionamento. Poi ci sono altri aspetti, legati alla natura propriamente
scientifica della teoria.
All'inizio, l'evoluzionismo non aveva una
struttura matematica. La teoria genetica dell'eredità, contenuta
già nei lavori sui piselli (oggi celebri) di Gregor Mendel, contemporaneo
di Darwin, rimasero completamente sconosciuti finché le stesse idee
furono riscoperte, al volgere del secolo, da De Vries, Correns e von Tschermak.
Prima di allora, la teoria (pur solida, a causa della genialità, della
profonda onestà intellettuale e della enciclopedica cultura biologica di
Darwin), non corrispondeva agli standard matematici che avevano reso feconda e
insieme irresistibile la scienza contemporanea. Dopo, cominciò a
corrispondervi sempre meglio; ma dovette fare i conti, in Occidente, con gli
irrazionalismi, le estrapolazioni bergsoniane, gli antievoluzionismi religiosi,
le utilizzazioni ciniche del «darwinismo sociale». Oggi che queste
disgraziate ideologie sono disinvoltamente dimenticate, vengono fuori le vere
difficoltà del darwinismo. Solo i più sciocchi, ormai, negano la
realtà dell'evoluzione. Ma il darwinismo afferma ben di più che
tale realtà: e questo di più ha tutta l'aria di essere almeno in
parte sbagliato.
Due sono i punti oggi più criticati. La prima
critica è la più venerabile: risale addirittura a Cuvier, prima di
Darwin (allora era diretta, infatti, contro Lamarck) e riguarda la
gradualità dell'evoluzione. Sembra difficile che un grandissimo numero di
piccolissimi cambiamenti abbia portato ai grandi cambiamenti sia perché
le forme intermedie forse sarebbero state male adattate, sia perché per
lo più mancano i fossili di tali forme intermedie. Sono perciò
popolari teorie dell'evoluzione più discontinue, come la teoria degli
equilibri punteggiati o puntuati di Eldredge e Gould (di solito c'è un
equilibrio ma in certi momenti o punti c'è un'evoluzione rapida, una
specie di salto).
L'altra critica riguarda la selezione naturale, e nasce
dal fatto che, come s'è scoperto, le proteine e il DNA mutano nel tempo
con una frequenza di mutazioni piuttosto costante, sia che l'ambiente cambi sia
che rimanga invariato. La distanza del DNA della carpa e di quello dell'uomo da
quello del loro antenato comune sembra essere all'incirca la stessa, eppure
quell'antenato viveva sicuramente in un ambiente simile a quello della carpa e
sicuramente somigliava molto più a una carpa che a un uomo. Questa
costanza è oggi addirittura utilizzata come orologio biologico per
misurare la velocità dell'evoluzione. Niente dunque di più
darwiniano, parrebbe. Eppure la cosa contrasta frontalmente con l'idea di Darwin
secondo la quale senza selezione non c'è evoluzione. L'invece espressa
nella teoria neutrale dell'evoluzione molecolare presentata dal biologo
giapponese Moto Kimura.
Esiste qualche somiglianza tra lo status della
teoria dell'evoluzione e quello della relatività generale. Anche questa
è sempre stata oggetto di contestazione nei 70 e passa anni da quando fu
proposta, e ha una base empirica ancora più fragile, ma è
altrettanto profondamente soddisfacente dal punto di vista intellettuale.
Anch'essa, guarda caso, tocca il problema delle origini: l'origine dell'Universo
(e la sua fine).
Una differenza è nel carattere più
rivoluzionario del darwinismo: in fondo, la relatività generale ha solo
superato, inverandola, la teoria di Newton, e sarà, si spera, superata
dalla teoria quantistica della gravitazione (per ora inesistente in forma
completa). Un'ultima differenza sta, naturalmente, nella maggiore importanza
della teoria dell'evoluzione, senza la quale buona parte della biologia sarebbe
perfettamente incomprensibile.